venerdì 25 novembre 2011

SILENZIO TOTALE SULLE CAVE IN VALBRENTA


Non si sente più parlare delle cave in Valbrenta. Eppure continuano a scavare senza sosta.
A Carpanè la miniera si sta mangiando una parte di montagna, mentre nei pressi di Cismon i cavatori stanno facendo sparire i conoidi di deiezione, (che sono quelli che rendono la vallata più interessante dal punto di vista ambientale), quando invece dovrebbero asportare solo la parte superficiale. Questo accade anche tra Primolano e il confine con il trentino.  
I comuni che potrebbero  ostacolare certe attività, dal momento che non c'è un vero e proprio incentivo economico che vada a loro vantaggio con queste cave invece accettano tutto questo.
L'incentivo poi ha un valore insignificante, e il ritorno monetario dovrebbe essere calcolato sui volumi di materiale esportato..
Tutto ciò sta contribuendo all'impoverimento del territorio ed all'allontanamento dei residenti.


Intanto la situazione delle cave in Veneto e in Italia è un business senza regole.
Secondo Legambiente la situazione delle cave è un’ottima cartina di tornasole per capire come si sta orientando il futuro del nostro Paese. Questo settore è infatti in forte connessione con il settore delle infrastruture, dell’edilizia, del Made in Italy (con le ceramiche) e non ultima con la gestione urbanistica e del paesaggio.

In molti paesi europei la legislazione sulle cave è stata rivista di pari passo con la necessità di un adeguamento alla green economy. Legambiente intende perciò con questo studio mettere in evidenza i problemi e portare alla luce una situazione che sembra non essere presa in considerazione da nessuna istituzione nel nostro Paese. Lo studio è costruito attraverso un questionario inviato alle Regioni ed alle Province competenti, incrociando i dati con studi europei e di settore. Le cave attive sono 5.736 mentre sono 13.016 quelle dismesse nelle Regioni in cui esiste un monitoraggio. A queste ultime si dovrebbero sommare le cave abbandonate in Calabria, Abruzzo e Friuli Venezia Giulia, il che porterebbe il dato a superare di gran lunga le 15 mila cave dismesse.
Nel 2010, con la crisi economica, soprattutto quella del settore edilizio, i numeri si sono ridimensionati rimanendo però impressionanti. Sono infatti 90 i milioni di metri cubi estratti nel 2010 solo per sabbia e ghiaia, materiali fondamentali nelle costruzioni, ma altrettanto elevati sono i quantitativi di calcare (41,7 milioni di metri cubi anche in questo caso utilizzati nel ciclo del cemento) e di pietre ornamentali (12 milioni di metri cubi). L’estrazione di sabbia e ghiaia rappresenta il 59% di tutti i materiali cavati in Italia; ai primi posti Lombardia, Lazio e Piemonte, che da sole raggiungono il 50% del totale estratto ogni anno con 43 milioni di metri cubi.
Il quadro normativo per la gestione di questa grande attività è fermo al Regio Decreto del 1927. Al centro-nord almeno il quadro delle regole è completo: i Piani Cava sono periodicamente aggiornati per rispondere alle richieste di una lobby dei cavatori organizzata. Mentre particolarmente preoccupanti sono le situazioni di Veneto, Abruzzo, Molise, Sardegna, Calabria, Basilicata, Campania, Friuli Venezia Giulia e Piemonte, tutte Regioni che non hanno un Piano Cave in vigore. L’assenza dei piani è particolarmente grave perché in pratica si lascia tutto il potere decisionale in mano a chi concede l'autorizzazione senza alcun riferimento su quanto, dove, come cavare. E se si considera il peso che le Ecomafie hanno nella gestione del ciclo del cemento e nel controllo della aree di estrazione è particolarmente preoccupante una situazione priva di regole.
L’Italia, fra l’altro, in controtendenza con tutti gli altri paesi europei continua a consumare cemento, seppure con una lieve flessione, in maniera davvero preoccupante: con oltre 34 milioni di tonnellate di cemento consumati in un periodo di crisi, per una media di 565 chili per ogni cittadino a fronte di una media europea di 404.
I motivi sono la costruzione di una grande quantità di case negli ultimi anni, un ritardo nell’innovazione tecnologica che rallenta e rende farraginosa la realizzazione di infrastrutture.
Poi vi è un uso eccessivo nelle opere pubbliche spinto da un quadro normativo arretrato (e da evidenti interessi economici) oltre che da un ritardo culturale della progettazione rispetto agli altri Paesi europei che ne utilizzano molto meno a parità (o maggiori) interventi realizzati.
I guadagni per i lavori in cava sono soltanto per chi estrae. In media nelle Regioni si paga il 4% del prezzo di vendita degli inerti.
Ancora più incredibile è la situazione delle Regioni dove si cava gratis: Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. Ma anche Valle d’Aosta e Lazio dove si chiedono pochi centesimi di euro per cavare metri cubi di inerti.
Le entrate per gli Enti Pubblici sono quindi davvero esigue rispetto al giro d’affari del settore. Il totale nazionale di tutte le concessioni pagate nelle Regioni, per sabbia e ghiaia, arriva a 36 milioni di Euro rispetto a 1 miliardo e 115 milioni di Euro l’anno ricavato dai cavatori dalla vendita.
L’ Emilia-Romagna la Regione dove si sta facendo di più, non solo rispetto al recupero delle aree dismesse ed alla pianificazione, ma anche in relazione ad i possibili aumenti dei canoni proposti in una risoluzione approvata dall’Assemblea Legislativa Regionale.
Un ragionamento importante, e legato inevitabilmente al tema delle regole, è quello della fiscalità. Non solo perché è assurdo che il costo del prelievo sia addirittura spesso pari a zero a fronte di guadagni altissimi dalla vendita dei materiali, ma anche per il costo esiguo del conferimento a discarica dei rifiuti provenienti dall’edilizia. Occorre invertire questa situazione, favorendo il riciclo degli inerti in modo da arrivare a ridurre sensibilmente l’utilizzo delle discariche come avviene negli altri Paesi europei.

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